Vi spiego il mal d’Africa – dopo 15 giorni dal ritorno dal Senegal
Quest’anno mi preparavo a chiudere l’anno con un sogno realizzato, quello che consideravo uno dei miei desideri più grandi: andare a New York. Che sciocca, ancora non sapevo che avrei esaudito anche quel sogno che non sapevo nemmeno di avere, quello di segnare sulla mappa dei viaggi e sulla mappa del cuore un posto che non potrò mai dimenticare: il Senegal.
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Mal d’Africa a quanto pare non è un modo di dire. È un malessere fisico, che sto provando in questi giorni sulla mia pelle. Se avete vissuto un’esperienza in Africa, anche solo lontanamente emozionante quanto la mia in Senegal, forse capirete.
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I sintomi non sono affatto piacevoli: lo sguardo perso e la difficoltà a concentrarmi su una vita quotidiana, che sembra, in confronto a quella vissuta lì, così fredda e superficiale. La nausea per i luoghi chiusi, per il traffico, per il moderno, per tutto ciò che è convenzionale e che di solito amo e apprezzo così tanto.
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Un bruciore alla bocca dello stomaco, sempre pronto a trasformarsi in pianto, ogni volta che sul cellulare o al computer scorro le fotografie e riorganizzo i ricordi ed i pensieri. E si, forse, lo faccio troppe volte al giorno.
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Quello che manca, quello che resta indelebile, sono le piccole cose legate ai sensi al di là della vista, cose a cui di solito presto poca attenzione, presa come sono dall’immortalare tutto attraverso fotografie. Il rumore degli animali per strada, una cosa così surreale, l’odoro acre di quegli animali e della vegetazione.
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La voce squillante e le risate profonde e allegre della gente di lì; le manine delicate dei bambini; la salsa di cipolle, anche quella, il pesce cotto in modo semplice e buono; la birra Gazzelle fresca e leggera; la musica che ti trasporta e fa ballare tutti, anche quelli che di solito stanno fermi.
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La sabbia sottilissima sotto i piedi, il rumore croccante delle conchiglie sull’ìsola di Fadiouth; il dondolare dolce delle piroghe, l’odore di mare fortissimo, a tratti sgradevole ma, allo stesso tempo, irresistibile; l’allegro suono delle piccole percussioni suonate sul traghetto per l’isola di Gorée; il nostro pulmino che percorre terreni non asfaltati; l’aria calda che entra dal finestrino, ma che comunque rinfresca.
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La pelle umida, tutto umido, tanto che a un certo punto non da nemmeno più fastidio: perché il Senegal si ama in modo incondizionato, in tutto e per tutto.
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Tutte le foto di questo articolo sono state scattate con Fujifilm XT20.
Il primo articolo sul Senegal potete leggerlo qui.