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Gente di Istanbul

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Questo è stato il viaggio della vita. Quello che si sogna intensamente  e che una volta realizzato lascia la strana paura di non saper più cosa sognare.

Ci dicemmo che saremmo andati ad Istanbul dopo la laurea. No, non pensavamo, non eravamo certi che ci saremmo riusciti davvero.

Il viaggio era iniziato nelle nostre menti già un paio di anni prima e continuerà a proseguire nello stesso luogo finchè avremo il desiderio di tornarci. Ad inizio giugno, però, è stato reale. Siamo stati in quella città dalla storia millenaria, divisa tra Occidente ed Oriente, tagliata in tre dal Corno d’Oro e dal Mar Bosforo. Questo poco basta per comprendere quanta bellezza essa può contenere. Quante sensazioni può regalare.

Ci siamo immersi, come sempre facciamo, ma questa volta di più. Avevo progettato tutto tanto tempo prima, scritto appunti su cartine, indirizzi, cose da vedere e fare… ma una volta lì, si viene talmente rapiti dal posto che si lasciano in albergo tutte le scartoffie e ci si abbandona, ci si perde. In una città che ad ogni angolo di strada ci si ferma per chiedersi “Ma sono davvero qui? Ho davvero realizzato questo desiderio?”. Istanbul è stata così bella che ancora non ci credo.

Penso che pubblicherò dei post a puntate su Istanbul, dedicando ad ognuno un tema, un quartiere, un profumo. Dico penso perché potrebbero essere infiniti… o forse scriverò solo questo pe evitare che la nostalgia mi assalga nel rivedere le foto.

Intanto oggi ho deciso di iniziare con le persone, con l’elemento più importante di questa straordinaria città. La bellezza di Istanbul è nella sua gente.

Una città non è accogliente, non è radiosa. Sono i suoi cittadini ad esserlo, sono  loro a farti desiderare di tornarci, di viverci. I profumi che loro vendono, le preghiere che loro cantano, il cibo che loro cucinano, i monumenti che curano. Le musiche che suonano, il narghilè che fumano, il çay che bevono ovunque ad ogni ora.

Ogni abitante di questa città contribuisce a nutrire e mantenere la sua anima così unica. Istanbul è in un assaggio di turkish delight offerto con un sorriso nel mercato delle spezie.

È nell’italiano quasi perfetto con cui il cameriere ti spiega ogni piatto del menu finché non decidi.

È nell’anziano che continua a pregare anche se migliaia di turisti disturbano il suo luogo sacro, e non dice niente. È anche in quell’anziano che, però, ti sgrida se non sei coperto in modo adeguato.

È nei ragazzi che suonano per strada, che non sono turchi, e lavorano ad orari assurdi, in negozietti di borse fatte a mano perché gli sta bene qualsiasi cosa pur di vivere qui e fare musica.

Istanbul è nel più simpatico e insistente dei venditori di tappeti del Gran Bazar. È sotto il velo delle donne che credono in tradizioni e valori che noi non potremo mai capire e quindi non dovremmo giudicare.

È nelle ragazze con shorts e smartphone che fuori dalla moschea cacciano un enorme scialle dalla borsa per coprirsi ed entrare a pregare. È in quelle che lo smartphone lo usano anche nella Moschea di Solimeno per scattare una selfie. È in quei valori che alcune di loro non rispettano più.

È nei pescatori lungo il ponte di Galata. Nel venditore che è contento di trovare un gatto nel proprio negozio.

Istanbul è nella gioventù seduta sotto la torre di Galata con in mano una birra Bomonti. È nei divertenti venditori di patete kumpir a Ortakoy.

Nei bambini vestiti come piccoli sultani, portati a Eyup per il rito della circoncisione. È nei bambini di strada, purtroppo, anche lì.

È nelle persone come me, che arrivano come turisti e si illudono di andare via un po’ cittadini di questo luogo dagli infiniti profumi e colori.

Io spero di meritarlo. Non so se l’amore che provo per questo luogo possa bastare a farmi essere parte della sua gente, della sua anima, ma posso sicuramente affermare che Istanbul è parte della mia.

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