Pensieri di una Dorothy con le scarpette piene di neve
Cosa cambiano tre mesi di città nuova nella vita di una ragazza? Cambiano solo le sue abitudini o è lei stessa a ritrovarsi diversa? Cambia davvero qualcosa o tre mesi sono troppo pochi? Alla fine a queste domande né io né i parenti e gli amici credo abbiamo trovato risposte. So, però, che alcune cose le ho imparate e senza tornare non me ne sarei resa conto. In pochi giorni, poi, ho notato e dato peso a cose che prima mi sfuggivano. Non di casa mia naturalmente, quello sarà sempre il posto che più amo al mondo… da brava Dorothy, con le mie scarpette rosse, batterò i tacchi e sempre lì mi farò portare.
Il mio bagaglio di questi tre mesi riguarda soprattutto il tempo. Finché non mi sono trovata in una città veloce come io ho sempre sognato di vivere, non mi ero mai resa conto davvero di quanto lento scorra il tempo dalle mie parti. Attendere una metro, attendere una pizza fritta in rosticceria, attendere che i termosifoni riscaldino casa, attendere la linea per telefonare, attendere il wi-fi, attendere gli amici, per ore. Sembra davvero che non si faccia altro che aspettare. Che ci sia un nesso con il fatto che al sud ci si gode tutto di più, è indubbio. Ma attendere tanto tempo una pizza non la rende necessariamente più buona: la mia filosofia è diversa. Se posso fare le cose pratiche della mia giornata nella metà del tempo, sono le cose belle che mi godo di più, quelle a cui posso dedicare più minuti. Se un amico arriva in orario, è il tempo da trascorrere insieme che aumenta. Se impiego pochi minuti per prendere i mezzi, sono i sacrosanti minuti nel letto di mattina che aumentano. Se la pizza arriva prima, non ho fretta nel mangiarla.
È paradossale ma io amo la città perché sono fondamentalmente pigra, se pur attiva. E amo avere una giornata che mi sembra durare il doppio, ma durante la quale impiego la metà del tempo nel fare tante cose, senza aspettare (quasi) mai nulla. Sono solo le cose belle che scelgo di far durare di più: le ore sul divano, le passeggiate, le cene, le dormite.
Si, è un pensiero quasi banale. A nessun napoletano piace attendere i mezzi. Ma ciò che mi ha davvero sconvolta è l’immediatezza con cui io mi sia abituata ai ritmi della mia vita a Milano, tanto da rimanere seriamente perplessa quando ero l’unica a spazientirmi per un quarto d’ora in attesa, in una rosticceria con pochissime persone e dove bisognerebbe essere serviti al momento.
Un’altra cosa che ho imparato è che vivere da soli e prendersi cura di una cosa è stancante e difficile. Certo, questo l’ho capito a Milano, ma l’ho concretizzato a casa, comportandomi come la peggiore delle adolescenti che lasciano tutto in disordine e non danno mai una mano alla mamma. E chiedo scusa, ma dovevo recuperare le forze. Come facciano le mamme è davvero un misterioso superpotere.
Ho notato che, ma qui un’amica più esperta mi aveva avvisata, il tempo non basta: vorrò sempre vedere e salutare tutti, ma pochi condivideranno la mia priorità. Con altri proprio non riuscirò e non sono riuscita ad organizzarmi , fino a rimanerci malissimo. Fino a valutare in anticipo, la prossima volta, con chi quel caffè è davvero di vitale importanza, con quella persona che lascerebbe il giusto ricordo per i prossimi mesi, troppi, dal numero sconosciuto, per cui non la vedrò.
Sono stata a Napoli in un gelido pomeriggio con amici. Napoli, che ogni volta mi incanta, ma che questa volta mi ha stuzzicata con qualcosa di nuovo, anzi di rinnovato: facendomi provare un senso di appartenenza incondizionato, che non manifesto, né alimento, ma sento senza volerlo né sapere il perché. Non mi sono mai nemmeno considerata napoletana, vivendo in provincia, ed essendo sempre stata, sin da bambina, piuttosto critica con la mia terra. Ma forse ce lo iniettano come un vaccino alla nascita questo orgoglio, questa fierezza, questo amore per le cose stupende, buone ed uniche che solo Napoli ha.
Ho imparato infine, che i posti che ami non smettono mai di sorprenderti. Che se scendi da Milano, dove sembrava far così freddo, portando con te solo un cappotto, perché tanto l’aperitivo della vigilia con gli amici lo hai sempre fatto vestita come a primavera, succederà l’impossibile. Ti sveglierai e alla tua finestra, come avevi sperato tante volte da bambina, troverai la neve. Sul tuo balcone, nel tuo giardino. Sul tetto di quella casa che esiste da 25 anni ma mai l’aveva avuto un manto bianco. Per quelle strade dove solo tuo padre e quelli della sua età la ricordano.
L’ultimo giorno dell’anno, per dire: tutto può accadere, non è mai troppo tardi e non è mai abbastanza. Quest’anno ti ha portata a Milano, ma una delle cose più emozionanti te l’ha regalata qui, dove non ti aspettavi più nulla, se non gli abbracci della famiglia e il calore di casa.
Scriverò sempre in treno, mi sembra una situazione perfetta e ringrazio per questi quaranta minuti in più che ci sta mettendo, perché questo post è più lungo del previsto. Gli aerei e i treni sono le mie scarpette rosse bidirezionali. Dico di non voler tornare, ma inutile nascondere che lo farò spesso. Così come alla fine non vedrò l’ora di tornare nel mio bilocale sul Naviglio Pavese.
Come dissi alla mia partenza posso chiamare casa più di un luogo, vivere in capo al mondo, cambiare mille appartamenti e sentirmi a mio agio e felice ovunque. Nell’assoluta certezza, però, che nessun luogo è come casa propria.